Chi è don Peppino?

Di Anna Wimmer
La pioggia viene dal nulla. L’aria è piena di umidità. Il vento soffia fortemente mentre Peppino corre gli ultimi metri verso la chiesa. San Nicola di Bari sembra illuminata sotto il cielo coperto. La sua facciata bianca riflette i pochi raggi di sole che si fanno strada attraverso la cappa di nubi. Come tutti i giorni è la prima persona in chiesa. Apre il portone. Entrando ascolta attentamente la pioggia smorzata. Piove e piove. È come se la primavera non fosse ancora stata inventata. Rimane calmo per qualche respiro e si gode il momento deserto. All’improvviso è tutto calmo. È come se la pioggia fosse stata una illusione. Il sole si apre un varco attraverso le vetrate ed illumina la navata. Una giornata particolare.
Sebbene Peppino sia tutto bagnato, passa all’altare. Le scarpe che hanno ticchettato fino a poco prima, cessano poco a poco. I suoi passi risuonano nella chiesa come un corpo estraneo che disturba il silenzio sacrale. Il suo luogo di lavoro non è paragonabile alle chiese dove lavorava prima. Roma si faceva notare con le chiese vistose ed ornate. Qui a Casal di Principe, una città campana, non trova quella ricchezza ecclesiastica. San Nicola di Bari è semplice, brutta, spoglia. Tuttavia, Giuseppe si sente bene. Rimanendo nella giungla d’asfalto, la sua vita sarebbe stata prefabbricata. Gli pronosticarono una carriera rapida. Ma non era quella che voleva. Si dice che tutte le strade portano a Roma, ma don Peppino si era messo sulla via del ritorno. Tornò al suo luogo di nascita per contribuire positivamente alla società. Casal di Principe è conosciuta in tutta Italia. Conosciuta per una cosa che non vale la pena di cui essere orgogliosi. Ha il record di omicidi in tutta la Europa, una città antica di camorra, dove la mafia è l’unico organo di potere che gli abitanti riconoscono.
Pensa al giorno seguente. Non adempie al ruolo del prete di provincia classico celebrando la solita messa. Per lui la domenica gli serve a denunciare quello che sta accadendo a Casal di Principe, la roccaforte della mafia. Un parroco che si avvolge nel silenzio, gli dava rabbia. Non vuole tacere. Non vuole che gli abitanti restino nell’ombra. Rabbrividisce dal freddo. Perso nei suoi pensieri, aveva dimenticato completamente di essere ancora bagnato. Succede spesso che Peppino si smarrisca nei suoi pensieri. In questi momenti non c’è altro che la sua attenzione immersa nei propri pensieri come se tutti gli avvenimenti vicini fossero congelati, quasi inesistenti. Esce della chiesa. Il lastrico è sempre bagnato mentre il cielo non mette in mostra per niente il temporale precedente. Le nuvole sono sparite e il sole mattutino inizia lentamente a seccare i suoi vestiti bagnati.
Accende una sigaretta. Aveva un alto grado di notorietà non soltanto negli ambienti ecclesiastici ma su tutto il territorio casertano a causa della sua condotta pubblica. Girava per il paese in jeans e non in tonaca. Fumava in pubblico. Raccontava per filo e per segno i delitti mafiosi di zona. Per lui quei gesti non erano atti di rivolta. Erano simboli di cambiamento. Tanto il suo sdegno quanto i suoi atti dovevano mostrare un cambiamento radicale e in nessun caso adattamento sociale. Era un momento di forte cambiamento, il che significava a Casal di Principe, fare qualcosa contro la presenza criminale. Contro la presenza mafiosa. Un muro di silenzio avvolge il paese. Le atrocità mafiose vengono trattate con indifferenza come se fossero accettate generalmente. È la verità amara che lo colpisce ogni giorno come un pugno. Un proverbio dice che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Non solo parlava. Costruì un centro di accoglienza per i primi immigrati africani, perché doveva impedire che quelle persone diventassero soldati della camorra. Immigranti che non hanno né la possibilità né la coscienza di scegliere un’altra strada perché non c’è un’altra strada. C’era soltanto la mafia con la capacità di offrire lavoro. Il parroco creò una via di scampo per questi immigranti. Creò un’altra strada.
Butta via la sigaretta. Controlla gli avvisi fuori della chiesa vicino al portone e si arresta leggendo la lettera aperta che distribuì a Natale tre anni fa in tutte le chiese di Casal di Principe: Per l’amore del mio popolo non tacerò. Scrisse un manifesto pubblico contro il crimine organizzato. Non poteva tacere. Sapeva che non era possibile vincere la camorra con un atto pubblico come questo. L’obiettivo era invece comprendere, trasformare, testimoniare e denunciare. Sussurra la ultima frase dicendo che il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia. Gli viene la idea di iniziare la messa del prossimo giorno con questa frase. Vuole passare alla importanza e al potere delle parole. La giustizia non può essere trovata senza le parole. Gli abitanti non possono desiderare una vita giusta negando l’esistenza della mafia. La vita quotidiana è controllata dalla mafia. È un fatto di cui vuole parlare in pubblico.
La città è ancora addormentata. Ci sono pochi passanti. Sporadicamente passa un pedone lungo lo spiazzo di San Nicola di Bari. Peppino osserva un uomo che attraversa la strada. Pensa per un attimo che sia il suo amico Renato Natale ma si sbaglia. Sebbene il sole non abbia asciugato completamente i suoi vestiti, rientra in chiesa. Spesso Natale veniva a trovarlo la mattina presto. Fu eletto quattro mesi fa il nuovo sindaco comunista di Casal di Principe. La sua entrata in carica venne come un fulmine a ciel sereno. La mafia non si aspettava una forza politica dall’ala sinistra che combatteva così fortemente gli influssi della mafia in zona. Dichiarò guerra alla ulcerazione cancerosa. Per Peppino l’assistenza non poteva essere cosa migliore. Avere un sindaco che stava dalla sua stessa parte, significava un grande appoggio. Un appoggio che riuniva il potere esecutivo e ecclesiastico. Non fissarono mai i loro incontri. Natale sapeva dove riusciva a trovare il parroco e dall’altra parte Peppino poteva contare con certezza sulla visita del sindaco almeno ogni cinque giorni. Il sabato era come se avessero stabilito tacitamente un rituale comune. Preparava la moca. Quando veniva il suo amico accendeva il fornello. Che il caffè doveva essere bollente e appena fatto, era il loro accordo.
Va alla sagrestia dove aveva messo un piccolo fornello elettrico. Nota il calendario attaccato alla parete. È il 19 marzo. Il giorno di San Giuseppe, il suo onomastico. Questo giorno non gli interessava molto, ma poteva essere sicuro di una chiamata in giornata di sua madre. Per lei l’onomastico era più importante che il compleanno. La scelta del nome significò per lei pronosticare il carattere e la natura di suo figlio. Secondo il Nuovo Testamento San Giuseppe era lo sposo di Maria e il padre putativo di Gesù. La sua qualità morale si distingueva per la brama di giustizia. Però Peppino non pensava che fosse un uomo giusto solo a causa del nome contrario all’opinione di sua madre. Non sapeva da dove veniva il suo senso della giustizia. Il pensiero che le sue azioni venissero dirette da dio, si era già perso da anni. Conosceva pochi parrochi che erano contro la mafia. Pochi che prendevano nettamente posizione contro le attività dei clan casalesi. Se la lotta contro la mafia fosse incaricata da Dio, i suoi colleghi non agirebbero in nome di Dio. Non poteva credere che operassero empiamente. Non facevano il loro dovere.
Non si è ancora vestito con gli abiti talari. Macina il caffè e prepara la moca. Prima che vengano i fedeli, vuole leggere il giornale e controllare se ci siano notizie che riguardino affari mafiosi attuali. Sarebbero materiale per la sua messa. Inizia a leggere la prima notizia quando si accorge del portone che cigola. Da giorni voleva oliare le cerniere. Se ne accorgeva sempre nel momento quando lui o qualcun’altro apriva il portone della chiesa. Il rumore era tremendo. Era come se ritornasse col pensiero ai tempi nella scuola conventuale, dove le porte non venivano mai lubrificate. Normalmente Renato non veniva a quell’ora. In effetti appariva sempre presto, ma alle sette non era mai venuto. Accende il fornello e ci mette la moca. Percepisce passi che echeggiano nella navata. Interrompono il silenzio così repentinamente che sembra essere cacciato per sempre, come se la tranquillità non mai tornasse più. I passi sono lenti e non sembrano essere finalizzati ad uno scopo. Si accinge ad uscire dalla sagrestia, però i passi si allungano e si avvicinano al luogo dove sta Giuseppe. Ancora prima che veda l’autore del brusio di passi, la sagrestia si oscura. Come un segno precursore di un temporale, il buio si avvicina. Un’ombra umana si mette sopra il vano schermando per un attimo tutta la luce che risplende dalla navata.
Entra un uomo basso. Porta i jeans e una giacca di pelle. Peppino non lo conosce. Per lui era importante avere un rapporto stretto con i visitatori della sua chiesa. Di solito conosceva tutte le persone che visitavano le messe. Spulcia la sua memoria ma non riesce a trovare nessun filo che lo porta al signore appena apparso. E’ sicuro di non avere mai visto la persona che ha di fronte. Ma perché uno straniero veniva a quest’ora a San Nicola di Bari? Non era nemmeno l’ora della confessione. Tutta la città sembra essere in letargo. Invece la persona è inquieta, quasi eccitata. Don Peppino nota inoltre che il sudore gli imperla la fronte. Pensa che ci sia qualcosa di grave che lo occupa. L’uomo lascia scorrere febbrilmente l’occhio nella sagrestia mentre trattiene il respiro. Resta in piedi due metri di fronte di lui. Il silenzio torna. Torna così velocemente, così come era sparito. Potrebbe essere la calma prima della tempesta, pensa Peppino.
Si guardano negli occhi. Nessuno parla. Soltanto la moca inizia ribollire come se volesse farsi notare con discrezione. Il parroco vuole fare un passo avanti quando l’uomo apre la bocca. Tenta di dire qualcosa ma gli manca il respiro. Prende fiato e gli chiede con voce spezzata: “Chi è don Peppino?” L’uomo non lo riconosce perché non porta i vestiti talari. Ma chi potrebbe trovarsi nella chiesa la mattina presto se non il parroco della chiesa? La sua risposta viene senza indugio: “Sono io.” Due parole che diventeranno le sue ultime parole. Gli occhi dell’uomo si allargano. Peppino vede il vicolo cieco in cui si trova. Mentre l’uomo tira fuori l’arma che aveva nascosto nella sua giacca, Peppino leva le braccia in alto. Il suo riflesso lo sorprende. Non vuole darsi per vinto. Ma sembra che la fine sia arrivata e che non sia più lui che controlla i suoi gesti. E’ diventato una marionetta dipendente dal suo corpo, dipendente dalla volontà umana di sopravvivere. Il suo cervello vuole essere forte mentre il suo corpo cerca l’ultimo espediente della situazione disperata. Mira al volto mentre l’uomo si avvicina. La sua testa è vuota. Nota un rumore che gli ricorda un vulcano attivo prima della eruzione: Il caffè è pronto.
Muore all’istante. La prima palla lo colpisce al volto. La seconda e la terza vanno a segno nella testa. Mentre la quarta colpisce la mano e l’ultima il collo. Un fiume di sangue si forma in breve tempo. Come un’isola il suo corpo inerte si accumula nel mare rosso. Il caffè che nel frattempo aveva iniziato a sgorgare, piove sul pavimento intriso di sangue. Il mafioso scomparve spettralmente in pochi secondi. Solamente le impronte sanguinose dei suoi piedi indicano l’assassinio. Per minuti non succede niente. Come succo versato il sangue copre il pavimento. Gli occhi aperti fissano l’infisso verso la navata. Il morto giace sul fianco. Il suo braccio destro è disteso anormalmente. Il silenzio fa la parte principale in chiesa. Un silenzio di tomba che viene interrotto dalla moca che sta gorgogliando senza interruzione. Il sole rinforzato riempie di luce la chiesa. Le finestre multicolori creano un gioco di luce che viene aumentato dalle gocce di pioggia. La luce si rifrange contro le gocce mettendo in moto i vari colori. Rimangono sulle finestre come testimoni segreti o presagi furtivi pronosticando la tragedia sanguinosa: La morte di don Peppino, del parroco di San Nicola di Bari. Pagava con la sua vita la lotta contro la mafia casalese. Il suo obiettivo non è mai stato vincere la camorra. Piuttosto voleva impedirle di giocare a nascondino nella vita quotidiana di Casal di Principe. Per lui era importante sottolineare che la mafia esiste e nient’altro. Soleva dire che vincitori e vinti erano sulla stessa barca. La sua barca affondò.
“Sento il bisogno di esprimere ancora una volta il vivo dolore in me suscitato dalla notizia dell’uccisione di don Giuseppe Diana, parroco della diocesi di Aversa, colpito da spietati assassini mentre si preparava a celebrare la santa messa. Nel deplorare questo nuovo efferato crimine, vi invito a unirvi a me nella preghiera di suffragio per l’anima del generoso sacerdote, impegnato nel servizio pastorale alla sua gente. Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra, produca frutti di piena conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace.”
Spegne la radio. Il messaggio di cordoglio di Papa Giovanni Paolo II rinforza il suo dolore. Non ci sono parole che possano cambiare la crudeltà del giorno anteriore. Si sente intorpidito. Renato Natale pensa ininterrottamente al corpo immobile che trovò sul pavimento della sagrestia. Il suo amico era stato ucciso in chiesa, un luogo che dovrebbe essere pacifico. Un luogo dove si trova aiuto ed assistenza. Al contrario don Peppino trovò la morte. Fu il prezzo pagato alla pace tra i clan. Provocava il potere della camorra casalese mentre le famiglie Schiavone e De Falco erano in guerra tra loro e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Tra i due gruppi in lotta si doveva trovare un accordo, e questo fu siglato sulla carne di don Peppino. Eliminarlo significava risolvere un problema per tutte le famiglie e al contempo distogliere l’attenzione delle indagini dai loro affari. Di questo, Natale era convinto.
Guarda fuori dalla finestra del municipio. È un giorno bellissimo. Il sole primaverile riscalda l’asfalto sul quale marcia un fiume di casalesi. Tutta la città è in lutto per la morte di don Peppino. Dalle finestre e dai balconi pendono le lenzuola bianche. Il bianco glassa le facciate di Casal di Principe. Riflette la luce abbagliante e corrobora l’atmosfera tesa. E’ come se la marcia funebre fosse guidata non dal lutto ma soltanto dalla rabbia della gente. Gli hanno preso il loro padre spirituale. Peppino non taceva. Invece raccontava. Non poteva fare altro che ribellarsi, rompendo il silenzio.