Catturato

Di Patricia Hintermayr
È un caldo straordinario per essere un giorno di fine aprile. Le campane della chiesa di Corleone annunciano che sono le dodici in punto, mezzogiorno. I cittadini della città siciliana stanno per pranzare per poi riposarsi un po’ dal caldo. Le strade con l’asfalto rotto e con buche enormi sono quasi vuote. Un prete anziano si avvicina alla chiesa maggiore di Corleone per pregare un Angelus e per sfuggire all’afa. Il suo viso con la sua pelle abbronzata dal sole siciliano e con le sue rughe profonde assomiglia alla terra secca che i contadini cercano di coltivare fuori dalla città. Di fronte alla chiesa due donne anziane sono appena scese dall’autobus. Ognuna ha tre, quattro borse di plastica bianca in mano. L’una, vestita tutto in nero perché le è morto il marito tanto tempo fa, saluta la sua compagna e attraversa la strada per poi sparire dietro il portone verde di una casa vecchia e diroccata. L’altra fa alcuni passi in avanti, poi mette le borse sulla strada perché le fanno male la schiena e le ginocchia. Guarda il cielo mettendosi una mano sulla fronte per proteggere i suoi occhi dal sole, riprende in mano le sue borse, fa un sospiro profondissimo come dovesse portare un peso enorme sulle sue spalle e continua il suo cammino.
Anche nella campagna vicino a Corleone si sentono le campane della chiesa. Lì, fuori dalle porte della città, lontani dalla vita moderna, sembra che il tempo si sia fermato già tantissimi anni fa. Questo aprile straordinariamente caldo ha, insieme ad un inverno molto arido, disseccato la terra che i contadini coltivano già da tre, quattro o cinque generazioni. Le case dei contadini sono disperse nel territorio collinoso, isolate dal mondo circostante. Alcune delle casucce sono state costruite più di cent’anni fa. Sono case povere con buchi nei muri, con tetti rotti e con finestre piccolissime. Accanto alle case, olivi offrono un po’ di ombra alle vacche. In lontananza si sentono i rumori della superstrada che collega Corleone con il resto dell’isola. Una donna magra con occhi e capelli nerissimi esce da una delle casucce e comincia a stendere la biancheria su una corda nel giardino. Un gatto grigio e magro come la sua padrona, le si avvicina alle gambe per ricevere la sua razione di carezze.
Giuseppe Gualtieri, capo della squadra mobile di Palermo, non vede né la donna, né il gatto, perché una delle altre case disperse sta al suo interesse particolare. Gualtieri e una decina di altri poliziotti si sono appostati attorno ad una casa diroccata con una stalla e un caseificio accanto. Gualtieri suda sotto la sua uniforma pesante. Il sole sta allo zenit e anche se il capo della squadra mobile e gli altri poliziotti si sono appostati nell’ombra, il caldo è insopportabile. Sono già due settimane che osservano questa casa. Due settimane snervanti. Oggi Gualtieri e i suoi uomini vogliono portare a termine quello che la polizia italiana cerca di fare già da più di quarant’anni. Non possono permettersi il minimo errore.
Dentro il casolare Bernardo ascolta il suono delle campane. Chiude gli occhi e pensa alla sua cresima nella chiesa maggiore di Corleone. Era un giorno caldo e splendido come oggi. La chiesa era piena di fedeli, tutti familiari dei giovani che stavano per ricevere lo Spirito Santo. I suoi genitori erano seduti in prima fila per guardare il loro figlio. Riapre gli occhi. “Basta con la nostalgia”, pensa e accende la radio sulla tavola. Bernardo si alza dalla sedia e va verso l’armadio fatto da legno scuro. Apre l’armadio e controlla i medicamenti che custodisce dentro una vecchia scatola da scarpe. Presto avrà bisogno di rifornimento. Già da alcuni anni ha problemi con la prostata. Un’operazione gli ha salvato la vita, ma da allora deve prendere dei farmaci. Con il passare degli anni la salute è diventato il suo punto debole. Da giovane era così forte, così invulnerabile. E adesso all’età di 73 anni dipende da queste piccole pastiglie.
Non solo il suo stato di salute è cambiato negli ultimi anni, ma anche il suo aspetto fisico è stato segnato dal passare del tempo. Pian piano la maggior parte dei suoi capelli è diventata grigia e rughe sul suo viso e soprattutto sulla sua gola sono diventate visibili. E come tanti altri anziani anche Bernardo ha bisogno di occhiali per leggere. Ma anche se la sua facoltà visiva è peggiorata, i suoi occhi sono come sempre: neri, attenti, lucidi. Non c’era e non c’è niente che può sfuggire al suo sguardo sveglio. Sveglia come i suoi occhi è anche la sua mente. Già da giovane Bernardo era molto pragmatico e deciso, non c’era niente e nessuno che lo poteva fermare. Non ha mai perso troppi pensieri nella nostalgia, alla malinconia o ai sentimenti da lui considerati superflui. È proprio per questo che i ricordi nostalgici che gli vengono ogni tanto, lo fanno arrabbiare. Per lui sono inutili e un segno di debolezza.
All’improvviso la porta del casolare si apre e cinque poliziotti in uniforme, con giubbotti antiproiettile addosso e le teste coperte da celate prendono d’assalto la stanza dove Bernardo ha controllato i suoi medicamenti. Tutti hanno una pistola in mano e si dirigono verso l’uomo anziano che sta ancora davanti all’armadio fatto di legno scuro. Bernardo guarda i poliziotti, tutti pronti a sparargli al primo movimento sbagliato. L’ambiente dentro il casolare è teso. Bernardo è sveglio e attento come un leone che osserva la situazione per poi attaccare la sua preda. Passata è la melancolia con la quale ha pensato alla sua cresima, passati i pensieri al rifornimento dei suoi medicamenti e passata la rabbia sulla sua salute. Adesso si concentra solo sulla stanza piccola dove i cinque poliziotti lo guardano con così tanta fermezza. Velocemente Bernardo esamina le opzioni che ha. Fra poco dovrà arrivare un suo amico a portargli vestiti lavati e il suo pranzo. Potrebbe aspettare l’arrivo dell’amico? Molto probabilmente no. Negli ultimi giorni il suo amico è sempre arrivato verso l’una. Inoltre, anche se il suo amico arrivasse in tempo non sarebbe preparato a fronteggiare almeno cinque poliziotti. Potrebbe fuggire? No. Le finestre sono troppe piccole e sicuramente ci sono ancora più poliziotti fuori la casa per proteggere i colleghi e per evitare la sua fuga. Potrebbe sparargli? Pensa alla sua pistola che custodisce nel cassetto sotto il tavolo. No, è troppo lontano, non può avvicinarsi alla tavola senza essere colpito da un poliziotto. Pian piano Bernardo realizza che non può scappare. Non c’è una soluzione che lo porta fuori dal casolare. Questa volta non è il leone che osserva e poi attacca la sua preda, questa volta è lui la preda.
Potrebbe anche lasciare che i poliziotti gli sparino. A 73 anni ha già la maggior parte della sua vita dietro di sé. Inoltre, la prospettiva di finire in una prigione e alla fine dopo anni di monotonia morire su una branda in una cella povera lo fa impazzire. La sua famiglia potrebbe sopravvivere anche senza lui. I suoi figli sono già adulti e potrebbero aiutare sua moglie a superare il dolore sulla morte del marito. Per quanto riguarda gli affari che devono essere gestiti, Bernardo ha già stabilito un successore. Ma anche se la prospettiva di morie in prigione non gli piace, l’idea di essere ucciso da un poliziotto è ancora peggio. Un grande uomo d’onore come lui ammazzato da un poliziotto dilettantesco, un pensiero insopportabile.
Dentro di sé Bernardo sapeva già da tanto tempo che un giorno sarebbe venuto il momento di arrendersi alla polizia, e questo giorno è arrivato. Per il momento ha perso una partita nel gioco che gioca già da più di quarant’anni.
Giuseppe Gualtieri guarda Bernardo attentamente, guarda i suoi capelli grigi, la gola rugosa, gli occhiali da leggere, i suoi vestiti semplici. Gli guarda direttamente negli occhi neri, attenti e lucidi. Negli occhi di Bernardo Gualtieri vede ferocia, ostilità e qualcosa che il poliziotto definirebbe come arroganza. “Questo è l’uomo più cercato d’Italia, un uomo anziano con rughe e con occhiali da leggere”, pensa Gualtieri. Ma non deve sottovalutarlo. Bernardo è un uomo pericoloso, furbo e brutale. Gualtieri suda sotto il suo giubbotto antiproiettile e sotto la celata. Ma non solamente a causa del caldo tremendo, anche perché è nervoso. Da una parte Gualtieri sa che ha vinto: la casa è circondata da poliziotti e qui dentro la casa ci sono cinque uomini armati pronti a fronteggiare un uomo anziano e –a quanto pare – disarmato. Ma dall’altra parte ci potrebbe essere un agguato. Forse ci sono uomini armati, amici di Bernardo, che si nascondono e aspettano il momento giusto per attaccare i poliziotti. Senza dubbi Gualtieri è un poliziotto di lungo corso, non è la sua prima azione sotto condizioni estreme. Ed è esattamente per questo che Gualtieri sa che si tratta di una situazione pericolosa, nonostante la superiorità numerica dei suoi uomini.
Ma poi, all’improvviso, Bernardo alza le mani, proprio come volesse arrendersi, e comincia a sorridere. È un sorriso orgoglioso, freddo, arrogante. Gualtieri pensa alla eventualità che questo sia una finta del uomo anziano, ma poi decide che deve terminare questo gioco che Bernardo e la polizia giocano già da troppi anni. “Lei è Bernardo Provenzano?” chiede al uomo anziano che lo guarda attentamente. Bernardo fa un cenno di sì col capo. Gualtieri guarda i suoi uomini e due di loro intascano le loro pistole e fanno alcuni passi rapidi avanti per mettere le manette a Bernardo. I due poliziotti si preparano a condurre via l’uomo anziano, ma Bernardo guarda Gualtieri direttamente negli occhi con uno sguardo ostile, pieno di odio. “Non sapete cosa fate”, dice al capo della squadra mobile, poi va via con i due poliziotti.
Non a caso Bernardo Provenzano era uno degli uomini più cercati d’Italia. Era membro di Cosa Nostra a partire degli anni cinquanta, capo dei capi a partire della metà degli anni novanta e responsabile per più di cinquanta omicidi. Il suo arresto l’11 aprile 2006 ha posto fine a una latitanza che durava da più di quarant’anni.
Bernardo Provenzano è nato il 31 gennaio 1933 a Corleone da una famiglia di contadini. Ha abbandonato presto la scuola per aiutare il padre nei campi. Ha iniziato la sua carriera criminale già da giovane con delitti come furto di generi alimentari e macellazione clandestina di bestiame rubato. A determinare il percorso di Provenzano all’interno di Cosa Nostra è stato Luciano Liggio. Provenzano si è legato presto al boss dei Corleonesi, e da lui è stato affilato alla cosca mafiosa locale. Fino all’arresto di Liggio nel 1974 Provenzano lo sosteneva.
Sia dentro Cosa Nostra che al di fuori dell’organizzazione criminale Provenzano era noto per la sua brutalità. Così è stato soprannominato “il trattore” per la violenza con la quale ha ucciso le sue vittime. Esempio famoso della brutalità di Provenzano è la strage di viale Lazio del 10 dicembre 1969. La strage compiuta da Provenzano e quattro altri mafiosi e diretto da Salvatore, detto Totò, Riina aveva come obiettivo l’omicidio di Michele Cavataio, capo della famiglia dell’Acquasanta. La famiglia dei Corleonesi riteneva che Cavataio fosse uno dei responsabili della prima guerra di mafia, scoppiata nel 1962. Perciò Liggio, Provenzano e Riina hanno voluto punirlo. Alla fine della strage sono state uccise cinque persone, tra di loro anche Cavataio. Ma il boss dell’Acquasanta non è morto subito. È stato colpito da una pistola ed è rimasto a terra ferito. Provenzano lo ha stordito con il calcio della sua beretta MAB 38 prima di finirlo con diversi colpi di pistola. Su questo avvenimento il collaboratore di giustizia Antonio Calderone ha affermato che Provenzano veniva chiamato “u’ tratturi” con riferimento alle sue capacità omicide, nel senso che egli tratturava tutto e da dove passava Provenzano non cresceva più l’erba.
Nonostante la sua latitanza che ha avuto inizio nel 1963 Provenzano era per decenni uno dei membri più influenti della famiglia dei Corleonesi. Dopo l’arresto di Liggio nel 1974 Provenzano e Riina sono diventati i reggenti dei Corleonesi e hanno fatto scoppiare la seconda guerra di mafia con cui hanno eleminato i boss rivali. Dopo gli arresti di Riina nel 1993 e di Leoluca Bagarella nel 1995 Provenzano è diventato il capo dei capi di Cosa Nostra. Era al culmine del suo potere. In seguito alla investitura a capo dei capi Provenzano ha avviato la cosiddetta strategia della sommersione. L’obiettivo della strategia era di rendere Cosa Nostra invisibile dopo gli attentati dinamitardi contro lo Stato italiano. Tra le più famose vittime degli attentati del 1992/93 erano i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per non richiamare troppo l’attenzione delle autorità e del pubblico su Cosa Nostra, quest’ultima ha limitato gli omicidi e le azioni eclatanti. Così la mafia siciliana poteva concentrarsi piuttosto allo sviluppo degli affari leciti e illeciti.
Già durante la sua latitanza Provenzano è stato condannato all’ergastolo varie volte. Così è stato recluso sia a Terni che a Novara e Parma in modo completamente isolato dagli altri detenuti. A partire del 2011 lo stato di salute di Provenzano si è aggravato. Questo ha suscitato una controversia giudiziaria tra gli avvocati dell’ex boss che chiedevano la revoca del regime 41bis e la procura di Palermo che insisteva sul trattamento di Provenzano a secondo delle direttive del regolamento carcerario. La cassazione ha ritenuto che un trasferimento di Provenzano dalla sua camera di massima sicurezza nell’ospedale di San Paolo di Milano a un ospedale comune avrebbe messo l’ex boss a rischio sopravvivenza visto che nella camera di massima sicurezza godeva di un’assistenza sanitaria efficace. Così Provenzano è morto il 13 luglio 2016 all’ospedale di San Paolo. Alcuni giorni dopo la sua urna è stata tumulata nella tomba di famiglia a Corleone.
Il nome di Giuseppe Gualtieri invece sarà per sempre legato all’arresto di Provenzano. In seguito all’arresto guidato da lui è stato promosso per merito straordinario Dirigente Superiore di polizia.
Con l’arresto di Provenzano l’era dei grandi boss mafiosi degli anni ottanta e novanta è terminata. Mentre altri capi come Totò Riina o Leoluca Bagarella sono già stati arrestati negli anni novanta, Provenzano è riuscito a nascondersi ancora dieci anni in più dalle autorità italiane. Ma come lo ha fatto? Com’è possibile in un paese industrializzato che un uomo possa rimanere latitante per più di quarant’anni e nel frattempo gestire un’organizzazione criminale come Cosa Nostra? Queste sono due domande che ci lascia il caso Provenzano. Domande per cui lo Stato Italiano deve trovare risposte. Sicuramente il principio dell’omertà e l’infiltrazione mafiosa della politica e della polizia sono due aspetti importanti che hanno permesso a Provenzano di vivere in latitanza e contemporaneamente rimanere ai vertici di Cosa Nostra. Questa vicenda dimostra che le leggi stabiliti per lottare la mafia come il 416terz che punisce politici che collaborano con la mafia, o la protezione di pentiti non bastano ancora per rompere i vincoli mafiosi. Senza dubbio nella lunga latitanza di Provenzano, ci sono sempre state delle persone che sapevano dove Provenzano si nascondeva e che lo hanno aiutato. Particolarmente per questo ci servono misure che spingano ancora più mafiosi a collaborare con la giustizia. Il caso Provenzano deve essere una lezione per le autorità italiane perché è un avvenimento che dovrebbe essere impensabile in un paese industrializzato come l’Italia.